Enzo Bianchi
La Stampa, 28 febbraio 2013
C’era bisogno di questo testamento. Se il cuore di molti cattolici era stato profondamente scosso dall’improvvisa rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino, le sue parole nell’ultima udienza pubblica in piazza San Pietro hanno illuminato maggiormente quella decisione. Significativa è stata la scelta del brano della Lettera ai cristiani di Colossi in cui l’apostolo Paolo rende grazie a Dio per la testimonianza offerta da quella comunità: una scelta operata dal papa per poter esprimere, sulla falsariga delle parole apostoliche, il suo ringraziamento al Signore e alla Chiesa per la sua fede e la sua carità.
Questo discorso rivela bene il cuore di Benedetto XVI: otto anni fa ha accettato con vera obbedienza di diventare papa, ponendo al Signore una domanda:
«Perché mi chiedi questo?». A settantotto anni, era consapevole della propria vecchiaia, di non aver fatto nulla per essere eletto, di dover «fare un mestiere» duro e faticoso. Fu chiamato a guidare una nave in mare agitato – un mare a tratti anche in tempesta – e diretta verso una meta con i venti contrari. Oggi, con la sua fede, confessa di non essersi mai sentito solo, neanche quando il Signore sembrava dormire e alcuni barcaioli non aiutavano a tenere la rotta ma facevano confusione.
La fede salda che ha sempre avuto gli fa dire che non si è sentito solo, e questo l’aveva detto in un momento critico vissuto nella sua curia, anche se in realtà la solitudine fa parte di chi presiede una Chiesa con una responsabilità propria e unica come quella del vescovo di Roma. Durante tutto il suo pontificato ha però sempre insistito sul dato che i cattolici devono credere e credono che la Chiesa è di Cristo, non è né del papa, né dei cardinali, né dei vescovi, né di qualsiasi «personaggio cattolico». Questa distinzione tra persona e servizio ha portato il papa alla rinuncia, evento nuovo e grave – secondo le parole del papa – ma dettato dal suo amore per la Chiesa. Quanto diceva sul decentramento necessario a ogni autorità nella Chiesa rispetto al Signore Gesù Cristo, il papa lo ha anche realizzato e mostrato concretamente.
E qui ci è dato un saggio di cosa significhi obbedire alla voce di Dio presente alla coscienza di ogni persona: Benedetto XVI ha pregato, ha chiesto la luce divina, poi ha cercato di giudicare se la scelta avveniva per amore della Chiesa o per amore di se stesso, ha valutato se era veramente nella logica del bene comune, del bene massimo della Chiesa, la comunione, e quindi con decisione, fermezza, parresia, cioè franchezza, ha manifestato ciò che gli era stato chiesto dal santuario della sua coscienza.
In questi giorni, dopo l’atto della sua rinuncia, si susseguono molte interpretazioni sul perché di questa decisione. Credo sia bene accettarla nei termini affermati e ribaditi da lui stesso. È un papa che non ha mai usato la menzogna, da lui sempre ritenuta uno dei tre interdetti fondamentali dell’etica umana e cristiana. Con il discorso all’ultima udienza, Benedetto XVI ci lascia un testamento, pieno di fede e di speranza, offerto senza una liturgia di trionfo, senza nessuna autocelebrazione, senza un commiato scenografico e da «grande evento» spettacolare. Un testamento che ci ricorda che solo «la parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita».
Ho conosciuto il teologo Ratzinger, poi il cardinale e, poco dopo la sua elezione, ho avuto una lunga udienza in cui ho potuto ascoltarlo e leggere assieme a lui alcuni temi ecclesiali cogenti: l’ecumenismo e la vita religiosa. Poi l’ho incontrato altre volte, trovando in lui sempre affetto e attenzione, oltre alla benevolenza con cui ha voluto nominarmi come esperto a due Sinodi generali dei vescovi. L’ultima volta mi ha sorpreso, salutandomi quando ero ancora a distanza: «Ah, ecco una vecchia conoscenza, il priore di Bose!». Mi ha anche espresso un desiderio che spero di poter soddisfare, anche se lui non è più il papa, ma resterà sempre un testimone della signoria di Cristo e di nessun altro.
Non sono un adulatore, ma a Benedetto XVI esprimo un grazie convinto per la sua fede e la sua umiltà, per quello che è stato in tutta la sua vita di cristiano, di teologo, di vescovo e di cardinale, per quello che sono stati i suoi otto anni da papa e per il suo gesto di rinuncia che aiuterà tutti anche ad avere una visione del primato petrino più aderente al Vangelo che vuole il papa «umile successore del Pescatore di Galilea» e «servo dei servi del Signore».
Così Benedetto ha rivelato il suo cuore
Enzo Bianchi
La Stampa, 28 febbraio 2013
C’era bisogno di questo testamento. Se il cuore di molti cattolici era stato profondamente scosso dall’improvvisa rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino, le sue parole nell’ultima udienza pubblica in piazza San Pietro hanno illuminato maggiormente quella decisione. Significativa è stata la scelta del brano della Lettera ai cristiani di Colossi in cui l’apostolo Paolo rende grazie a Dio per la testimonianza offerta da quella comunità: una scelta operata dal papa per poter esprimere, sulla falsariga delle parole apostoliche, il suo ringraziamento al Signore e alla Chiesa per la sua fede e la sua carità.
Questo discorso rivela bene il cuore di Benedetto XVI: otto anni fa ha accettato con vera obbedienza di diventare papa, ponendo al Signore una domanda:
«Perché mi chiedi questo?». A settantotto anni, era consapevole della propria vecchiaia, di non aver fatto nulla per essere eletto, di dover «fare un mestiere» duro e faticoso. Fu chiamato a guidare una nave in mare agitato – un mare a tratti anche in tempesta – e diretta verso una meta con i venti contrari. Oggi, con la sua fede, confessa di non essersi mai sentito solo, neanche quando il Signore sembrava dormire e alcuni barcaioli non aiutavano a tenere la rotta ma facevano confusione.
La fede salda che ha sempre avuto gli fa dire che non si è sentito solo, e questo l’aveva detto in un momento critico vissuto nella sua curia, anche se in realtà la solitudine fa parte di chi presiede una Chiesa con una responsabilità propria e unica come quella del vescovo di Roma. Durante tutto il suo pontificato ha però sempre insistito sul dato che i cattolici devono credere e credono che la Chiesa è di Cristo, non è né del papa, né dei cardinali, né dei vescovi, né di qualsiasi «personaggio cattolico». Questa distinzione tra persona e servizio ha portato il papa alla rinuncia, evento nuovo e grave – secondo le parole del papa – ma dettato dal suo amore per la Chiesa. Quanto diceva sul decentramento necessario a ogni autorità nella Chiesa rispetto al Signore Gesù Cristo, il papa lo ha anche realizzato e mostrato concretamente.
E qui ci è dato un saggio di cosa significhi obbedire alla voce di Dio presente alla coscienza di ogni persona: Benedetto XVI ha pregato, ha chiesto la luce divina, poi ha cercato di giudicare se la scelta avveniva per amore della Chiesa o per amore di se stesso, ha valutato se era veramente nella logica del bene comune, del bene massimo della Chiesa, la comunione, e quindi con decisione, fermezza, parresia, cioè franchezza, ha manifestato ciò che gli era stato chiesto dal santuario della sua coscienza.
In questi giorni, dopo l’atto della sua rinuncia, si susseguono molte interpretazioni sul perché di questa decisione. Credo sia bene accettarla nei termini affermati e ribaditi da lui stesso. È un papa che non ha mai usato la menzogna, da lui sempre ritenuta uno dei tre interdetti fondamentali dell’etica umana e cristiana. Con il discorso all’ultima udienza, Benedetto XVI ci lascia un testamento, pieno di fede e di speranza, offerto senza una liturgia di trionfo, senza nessuna autocelebrazione, senza un commiato scenografico e da «grande evento» spettacolare. Un testamento che ci ricorda che solo «la parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita».
Ho conosciuto il teologo Ratzinger, poi il cardinale e, poco dopo la sua elezione, ho avuto una lunga udienza in cui ho potuto ascoltarlo e leggere assieme a lui alcuni temi ecclesiali cogenti: l’ecumenismo e la vita religiosa. Poi l’ho incontrato altre volte, trovando in lui sempre affetto e attenzione, oltre alla benevolenza con cui ha voluto nominarmi come esperto a due Sinodi generali dei vescovi. L’ultima volta mi ha sorpreso, salutandomi quando ero ancora a distanza: «Ah, ecco una vecchia conoscenza, il priore di Bose!». Mi ha anche espresso un desiderio che spero di poter soddisfare, anche se lui non è più il papa, ma resterà sempre un testimone della signoria di Cristo e di nessun altro.
Non sono un adulatore, ma a Benedetto XVI esprimo un grazie convinto per la sua fede e la sua umiltà, per quello che è stato in tutta la sua vita di cristiano, di teologo, di vescovo e di cardinale, per quello che sono stati i suoi otto anni da papa e per il suo gesto di rinuncia che aiuterà tutti anche ad avere una visione del primato petrino più aderente al Vangelo che vuole il papa «umile successore del Pescatore di Galilea» e «servo dei servi del Signore».