La primavera della chiesa

di Enzo Bianchi (La Repubblica, 4/12/2013)

Papa Francesco ci ha donato senza troppe dilazioni l’esortazione post-sinodale secondo i voti dei padri del Sinodo sulla nuova evangelizzazione (ottobre 2012), al quale ho partecipato come esperto chiamato da Benedetto XVI. L’evangelizzazione vi è  presentata nell’ottica della gioia cristiana, perché il Vangelo è sempre un gioioso annuncio.

Nel testo vi sono sì echi delle proposizioni del Sinodo, come testimoniato dalle note, ma non solo lo stile resta diverso dal genere letterario delle esortazioni post-sinodali del passato, ma anche i contenuti rispondono soprattutto alla visione di papa Francesco, alla sua lettura dell’attuale situazione della chiesa nel mondo, al suo programma di ministero petrino iniziato ormai da nove mesi, alla sua sollecitudine di pastore. I temi affrontati sono molti e il linguaggio e il pensiero sono quelli già enunciati in molte occasioni o rinvenibili nel suo magistero di arcivescovo di una chiesa giovane, appartenente al mondo periferico e lontano rispetto all’antica cristianità europea.

Innanzitutto è riaffermato ancora una volta il primato del perdono di Dio, perdono che non si deve meritare ma solo accogliere come un dono che Dio rinnova settanta volte sette (cf. Mt 18,22), affinché noi uomini e donne – operatori di male anche se non lo vogliamo – possiamo alzare il capo e ricominciare con speranza la sequela del Signore. Se davvero il cristianesimo è “un andare di inizio in inizio per inizi che non hanno fine” (Gregorio di Nissa), allora la vita cristiana è gioiosa, sa sperare anche nella disperazione, sa cercare un rinnovamento contro ogni vecchiezza. Qui papa Francesco si fa “servitore della gioia dei credenti” (Paolo VI) e riesce a ridare forza alla fede come convinzione, a ridare slancio alla corsa del Vangelo nel mondo.

Ma il vescovo di Roma pone anche dei limiti alla sua esortazione: è rivolta a tutta la chiesa, ma non ambisce a dire tutto, né pretende di essere esaustiva. Per questo rinuncia a trattare in modo specifico molti temi che abbisognano di approfondimento da parte delle singole chiese. Il papa non vuole sostituirsi agli episcopati delle chiese nel discernimento dei problemi né nell’indicazione della loro soluzione: non a caso, nelle note appaiono – dato inconsueto per un documento papale – testi di alcune conferenze episcopali. La voce del papa non esaurisce quelle dei vescovi né le copre: già questo è un principio di decentralizzazione che instaura la possibile sussidiarietà ecclesiale in virtù della quale molti compiti possono essere svolti dai vescovi e non devono essere riservati al pontefice e alla curia romana che lo assiste.

Se questi sono i punti presenti nell’esordio, il papa passa poi a delineare la riforma della chiesa e a indicare la modalità, lo stile della sua testimonianza nel mondo. Tra i tanti temi faccio un discernimento, soffermandomi sui punti più decisivi e, per molti aspetti, contenenti una certa novità: la conversione del papato, la gerarchia delle verità, il senso dei limiti ecclesiali e la mondanità. Certo, grande spazio prende il tema della povertà della chiesa e della sua azione per i poveri del mondo, i primi clienti di diritto della parola di Dio, ma per ora non approfondiamo questo aspetto, apparso cocente, bruciante fin dall’inizio di questo pontificato.

La “conversione del papato” (sic) sta nello spazio della conversione richiesta a tutta la chiesa. Se il papa invita tutti – vescovi, preti e fedeli – a convertirsi ripudiando ogni forma di idolatria per tornare al Vangelo, l’appello riguarda anche il papato come forma di esercizio del servizio petrino. Questo servizio è stato voluto dal Signore, e dunque per noi cattolici sta nello spazio della fede, ma è un servizio che nella storia ha assunto diverse forme di esercizio: dal semplice confermare i fratelli nella fede da parte di Simon Pietro, a una supplenza politica erettasi a monarchia, fino alla forma attuale in cui il papa si fregia ancora di tanti titoli che esprimono forme di potere a lui attribuite.

Giovanni Paolo II, nell’enciclica sull’unità dei cristiani (Ut unum sint, 1995), aveva avuto l’audacia di mettere in discussione la forma dell’esercizio del ministero petrino, invitando ortodossi e protestanti a manifestare il loro pensiero e a dare suggerimenti per una maggiore fedeltà al Vangelo e all’intenzione del Signore nell’esercizio del vescovo di Roma. L’allora cardinale Joseph Ratzinger a questo proposito aveva anche detto che le chiese ortodosse non avrebbero dovuto accettare una forma del ministero petrino diversa da quella esercitata nel primo millennio. Poi però un forte silenzio è sceso su questo invito di Giovanni Paolo II e non vi è stata nessuna vera iniziativa per dare consistenza a tale riflessione condivisa, se non i dialoghi bilaterali tra ortodossi e cattolici, che però si sono arenati proprio sulla discussione del rapporto tra primato e sinodalità. Papa Francesco sa che il cammino della riconciliazione tra le chiese, non può ignorare che la forma attuale dell’esercizio del papato costituisce per ortodossi e protestanti un ostacolo decisivo… Occorre l’audacia di ascoltare tutti insieme il Vangelo e la grande Tradizione, occorre non avere paura e smettere di litigare per affermare chi deve essere il primo, come accade tra gli apostoli fin dal tempo di Gesù (cf. Mc 10,34 e par.).

Ma è significativo che il papa riprenda un altro tema conciliare, quello della gerarchia delle verità, anche questo occultato e silente negli ultimi decenni. Egli invita, tanto per le verità di fede quanto per gli insegnamenti della chiesa e per la morale, a non appiattire tutto, ma a riconoscere ciò che è primario, fondamentale, e ciò che invece è derivato; ciò che è essenziale e ciò che lascia possibile la libertà di aderirvi o meno; ciò che fa parte del nocciolo della verità e ciò che ne è solo rivestimento culturale, sempre cangiante nelle diverse epoche. Non basta l’ossessione dell’ortodossia per essere conformi al pensiero di Gesù Cristo, non basta difendere le formulazioni dimenticando di dover trasmettere la sostanza. Le espressioni della fede devono essere plurali perché “multicolorata è la sapienza di Dio” (Ef 3,10), avverte l’Apostolo. Sì, lo dobbiamo confessare: quante immagini perverse del volto di Dio; quanti pesi caricati abusivamente sulle spalle degli uomini (cf. Mt 23,4), anche con buone e sante intenzioni; quante alienazioni e schiavitù imposte, soprattutto ai poveri, in nome della religione… Paolo VI diceva che molte ragioni dell’ateismo contemporaneo vanno cercate nelle proposizioni dei cristiani, nel loro racconto di Dio, nella loro pretesa testimonianza. E Francesco ricorda che il profeta aveva ammonito i credenti, accusando: “Dice il Signore: ‘Per colpa vostra il mio Nome è bestemmiato tra le genti’” (cf. Ez 36,22; Rm 2,24).

E infine il papa – ormai l’abbiamo capito – ama snidare gli ipocriti, ovvero, nel suo linguaggio, quei cristiani che amano la mondanità travestita da atteggiamenti spirituali. Sono religiosissimi all’apparenza, gridano il loro amore per la chiesa, dicono che per affermare la gloria del Signore devono essi pure ricevere gloria perché suoi rappresentanti. Ostentano sollecitudine allarmata per tutto ciò che è formale ma non si preoccupano dei poveri cristiani loro affidati, delle loro pecore. Pensano di essere solidali con l’umanità attraverso la loro “presenza” a cene e ricevimenti o immergendosi in un funzionalismo manageriale, il cui beneficiario non è la chiesa dei fedeli ma l’istituzione ecclesiastica. Parole dure come quelle di Gesù agli uomini religiosi del suo tempo!

Per papa Francesco la mondanità è l’assetto ingiusto di questo mondo, le sue strutture di schiavitù, violenza e menzogna, i poteri invisibili e occulti che Paolo chiama árchontes, “potenti di questo mondo” (1Cor 2,6.8). Per questo ricorda che anche la potestà di chi è ministro nella chiesa, vescovo o presbitero, va inscritta solo nello spazio della funzione, del servizio, non della dignità e della santità, perché la dignità viene dal battesimo e appartiene a tutti i cristiani, come anche la chiamata alla santità. Nessuna superiorità nella chiesa, dove non ci sono inferiori e superiori ma solo fratelli, alcuni dei quali posti da Cristo come pastori e servi della comunione: non sono funzionari, certo, ma non hanno neppure diritto ad alcuna esaltazione.

Ho evidenziato solo alcuni punti dell’esortazione che appaiono inediti e autonomi rispetto alle voci del Sinodo del 2012: sono il pensiero e il progetto di Francesco, attualmente vescovo di Roma. È chiaro che questo inizio di pontificato, le parole e i gesti di questo papa e infine questa esortazione, fanno gioire molti cattolici e non solo. C’è grande gioia e attesa, c’è – lo abbiamo già scritto – un clima di primavera a volte esaltante e meravigliato. Non ho mai peccato di papolatria, ma non posso non riconoscere che anch’io partecipo a questa gioia ecclesiale. E tuttavia, senza voler fare “il profeta di sventura” (e me ne guardo bene, memore dell’ammonimento di Giovanni XXIII all’apertura del concilio), vorrei ricordare solo ciò che uno sguardo cristiano sa prevedere.

Se davvero con papa Francesco si imbocca una riforma evangelica della chiesa, non si deve cadere in un facile ottimismo o in un’atmosfera da canto di “vittoria”. Perché più la chiesa si fa conforme al suo Signore, più conosce fatica, sofferenza e finanche lacerazioni: c’è una necessitas passionis della chiesa che è dovuta a quella che è stata la necessitas passionis del suo Signore Gesù Cristo. Quel che è avvenuto per Gesù, avverrà per la chiesa e per ogni comunità cristiana, se è conforme al suo Signore, perché le potenze mondane messe al muro dalla “logica della croce” (1Cor 1,18) si scateneranno e questo causerà un “urto” con il mondo, quella realtà che Francesco chiama mondanità. La conversione di ciascuno, e ancor più quella della chiesa, comporta tutto questo. La chiesa è sempre tentata di arrendersi al mondo, non mostrando più la differenza cristiana, svuotando la croce, annacquando il Vangelo, piegandosi alle richieste mondane; oppure è tentata di affrontare il mondo con intransigenza e di munirsi delle stesse armi della mondanità: presenza gridata, volontà di contare e di contarsi, atteggiamento da gruppo di pressione. In particolare sarà sempre difficile realizzare “una chiesa povera, di poveri e per i poveri”, una chiesa che non conti sui potenti di questo mondo.

Dunque l’entusiasmo per papa Francesco è grande e non va spento, ma occorre restare vigilanti e soprattutto essere consapevoli che, se il papa non è aiutato dai vescovi, dai presbiteri e dal popolo, non riuscirà a fare nessuna riforma. Le riforme hanno bisogno della conversione e del sostegno del popolo di Dio, non possono essere compito di uno solo. Papa Francesco avrà contro soprattutto il vento delle potenze avverse, perché dovrà faticosamente intrecciare le riforme ecclesiali con il principio sinodale. E come ogni profeta sarà più ascoltato – come è avvenuto per il Battista e per Gesù – da quelli che si riconoscono peccatori, “pubblicani e prostitute” (cf. Mt 21,2; Lc 7,34; 15,1), “samaritani e stranieri” (cf. Lc 17,38; Gv 4,39-40), piuttosto che da quelli di casa sua.

Mi diceva Hans Urs von Balthasar: “La chiesa ha conosciuto poche primavere, sempre interrotte da gelate repentine”. Apprestiamo tutto perché questa primavera sbocci e dia i suoi frutti.

La Repubblica, 4 dicembre 2013

di ENZO BIANCHI

fonte: http://www.monasterodibose.it/

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